I PERSONAGGI DELLA GRANDE GUERRA
Edith Cavell
Gente semplice quella del Norfolk, una contea rurale, storicamente agricola. Swardeston è un villaggio: quattro gatti di abitanti e una chiesetta: la St. Mary's church. Nella seconda metà dell’800 il vicario è Frederick Cavell, padre di quattro figli, tra cui Edith.
Edith Cavell è una ragazza speciale; la famiglia è povera, lei ha studiato a casa e a fine secolo lavora come governante a Bruxelles, dove impara il francese. Ma qualcosa le manca e rubo la citazione dal The Economist: “Un giorno, in qualche modo, farò qualcosa di utile, qualcosa per la gente. Molte persone sono così indifese, così colpite e così infelici.”
Torna in Inghilterra e diventa infermiera. Siccome è brava, molto brava, nel 1907 Edith viene chiamata dal Belgio: le viene offerto di dirigere la nuovissima “Ecole Belge d'Infirmières Diplômées”, una scuola professionale per infermiere. Tenete presente l’anno: è il 1907 e l’idea che una donna potesse guadagnarsi da vivere lavorando, non è certo la più in voga.
La “professionalità” non esisteva, erano soprattutto le suore a fare le infermiere: chi aveva studiato, le figlie delle “famiglie buone”, restavano nei salotti; temevano che il lavoro influisse sul proprio status sociale. Edith Cavell è senza dubbio una pioniera dell’infermieristica moderna, più o meno quanto Florence Nightingale. In breve tempo mette in piedi la rivista “L'infirmière” e diventa il punto di riferimento per la formazione professionale di ospedali e scuole. L’ho già detto che era brava? Sì, bene.
Allo scoppio della Grande Guerra è fortunata, lei è in patria, dalla sua famiglia, lontana dal fronte. E secondo voi può rimanersene a casa?"Non riesco a smettere mentre ci sono vite da salvare”. Frase citata nel 1941 da Helen Judson in “The American Journal of Nursing”. La Cavell torna in Belgio, dove per un anno cura chiunque le capiti per le mani: francesi, tedeschi, inglesi, belgi, non fa differenza. Ma il problema è un altro: con il passare dei mesi aiuta circa 200 soldati Alleati a fuggire dal paese. La Germania scopre il giochetto e il 3 agosto 1915 l’arresta. Qui la parola chiave diventa “rapidità”. Quando si arriva in tribunale, alla corte marziale, la pena è decisa, il verdetto è scontato, il processo è sommario. Aver salvato, l’essersi presa cura anche dei tanti feriti tedeschi non conta. Le viene di fatto negato il diritto di difendersi. Lei ha confessato, durante la prigionia e l’isolamento, ma i tedeschi vogliono andare sul sicuro, vogliono farne un esempio. L’Ambasciata americana si offre di rappresentarla, di difenderla, ma no, verrà nominato un avvocato d’ufficio, ovviamente scelto dall’autorità tedesca.
Il 10 ottobre il tribunale militare di Bruxelles condanna a morte Edith Cavell. L’affrettata sentenza non può stupire nessuno. Siamo alla fine della storia. Pochi passi all’aria aperta, nell’oscurità, in un’alba belga di metà ottobre al poligono di Schaerbeek; dubito fosse la più immaginifica delle atmosfere. Passi pesanti o leggeri non saprei, ma sono sicuramente gli ultimi. Il plotone d’esecuzione prende la mira, l’ufficiale dà l’ordine: fuoco. E basta, resta solo il buio: freddo, opprimente, insensibile, disilluso, cupo. Edith Cavel, 49 anni, viene giustiziata dai tedeschi la mattina del 12 ottobre 1915. Sembra che le sue ultime parole siano state quelle incise sul memoriale londinese: “Il patriottismo non è sufficiente. Non devo serbare odio, né rancore, verso nessuno”.
Hanno fallito tutti: in primis l’umanità, intesa come qualità morale, la giustizia e il buonsenso. Poi hanno fallito le diplomazie: americani e spagnoli hanno provato fino all’ultimo a far commutare la pena, ma l’interessamento di due ambasciate non è bastato a ottenere neanche un rinvio dell’esecuzione. E ha fallito soprattutto la Germania, sempre più la “grande cattiva”, colpevole dell’ennesimo autogol: Edith Cavell diventa una “martire”, un’icona della propaganda anti-tedesca; come il Lusitania, come troppi altri esempi.
Davide Sartori