21 Novembre, 1915

"I nostri figli valgono più di noi"

Il Teatro Massimo di Palermo è gremito, meraviglioso e appena maggiorenne quando, il 21 novembre, ospita Vittorio Emanuele Orlando, Ministro di Grazia e Giustizia. L’intervento tenuto dal Guardasigilli è seducente quasi quanto il capolavoro neoclassico, una perla d’arte oratoria. A prescindere dalle opinioni personali. È lungo, molto lungo, ma vale la pena leggerne qualche passaggio: «Questo discorso vuol essere soddisfazione di quel prepotente bisogno dell’animo umano di trovarsi, nelle ore decisive, fra cuoi amici. […] Il nostro popolo intuì, per virtù d’istinto, che l’assentarsi da questa guerra avrebbe segnato il proprio suicidio. […] L’istinto della conservazione collettiva arriva così a vincere il più possente fra gli istinti individuali e il popolo italiano volle che migliaia dei suoi figli morissero perché vivesse l’Italia. […] Qualsiasi fosse stato il vincitore, l’Italia, non combattendo, si dichiarava vinta in anticipo. E vinta con ignominia, essendo per un popolo, assai peggio dell’essere battuto, l’essere considerato incapace di battersi. […] Mai, da secoli, sin dalla caduta di Roma, era così disceso in campo il popolo italiano; mai avevamo sentito così interamente nostro, così tutto nostro,

questo esercito, che riassume quanto di più generoso e di più nobile costituisca la Patria. […] È davvero l’immagine della giovane Italia e mai come in quest’ora noi abbiamo sentito pungente il rimorso di aver talvolta dubitato delle nuove generazioni. […] I nostri figli valgono più di noi. […] Ma non meno necessaria alla vittoria è la cooperazione dell’altro esercito, di quello che vive entro i confini, il popolo tutto. […] All’Italia, superato il periodo eroico della costituzione come unità politica, era sinora mancato il cimento in cui affermarsi come organica unità di popolo. […] L’Italia contemporanea non gode solo degli incanti della natura o dell’arte, ma conosce pure l’aspra e sana virtù del sacrificio e della sofferenza, che non è solo genitrice di pensatori e di poeti, ma di tutto un popolo, illuminato dall’idea e temprato dall’azione».

Davide Sartori

GLI AVVENIMENTI

Politica e società

  • Il Ministro italiano Orlando pronuncia a Palermo un discorso, nel quale esamina cause, caratteri, scopi della guerra italiana, espone i criteri del Governo negli affari balcanici e giustifica il contegno del Governo verso il Pontefice.
  • Il Principe persiano Firman Firma, Ministro dell’interno, prende provvedimenti per porre fine alle attività tedesche in Persia.

Fronte orientale

  • Grave carenza di armi, munizioni e uniformi in Russia.

Fronte italiano

  • Aeroplani italiani bombardano, nella notte, il campo di aviazione austro-ungarico di Aisovizza, causando molti danni.

Fronte meridionale

  • Gli austro-tedesco-bulgari invadono il sangiaccato di Novi-Pazar; conquistata la città.
  • I serbi scacciati dalle ultime posizioni nella vecchia Serbia.
  • Continua la ritirata serba in direzione dell’Adriatico.

  • I montenegrini respingono un violento attacco austro-ungarico sul fiume Lim e resistono valorosamente.

Fronte d’oltremare

  • Tibati (Camerun) occupata dagli Alleati.

Parole d'epoca

Ricostruzione della storia interiore della guerra nostra

Ministro di grazia e giustizia e dei culti, Vittorio Emanuele Orlando

Palermo, Teatro Massimo

Per quanto si riferisce allo stato d'animo con il quale il popolo italiano entrò in guerra, i nostri nemici hanno divulgato la menzogna più visibile e più sciocca, affermando che allora si credeva di avere dinnanzi a sé un compito semplice, rapido e sicuro, quasi di altro non si trattasse che di dare l'ultimo colpo a un nemico già vinto e prostrato, o di un giuoco da cui fosse eliminato ogni rischio. Tale affermazione conferma l'incredibile inabilità ed ignoranza loro per quanto tocca alla psicologia collettiva, che poi un osservatore anche mediocre avrebbe subito rilevato com'era diverso, anzi opposto, fosse l'animo italiano nel valutare la gravità del cimento.

Non giova dir tutto a questo proposito ma ognuno di voi ben sa come in alcuni spiriti e in alcuni ambienti, la cui fede patriottica non sarebbe giusto di mettere in dubbio, il pessimismo con cui si consideravano le difficoltà e i rischi e i pericoli dell'impresa, si esaltasse al punto di determinare veri fenomeni di inibizione psicologica. Ma, anche a prescindere da codeste che potrebbero dirsi eccezioni, erano generali le esitazioni, che appunto la coscienza dello straordinario cimento determinava, in organizzazioni, in partiti, in uomini politici. 

Tale ricordo vuol essere puramente storico e servire soltanto a sventar l'accusa nemica e a rivendicare la nobiltà generosa della decisione nostra: e, per altro, alla preoccupazione inspirata dall'immensità del rischio, che le vicende della guerra ben rendevano valutabile e tangibile, non si sottrassero neppure coloro sui quali gravava più immediata e più formidabile la responsabilità della decisione. Se troppo cruda è la frase di Amleto, che la coscienza rende codardi, è pur vero che anche quando al lume dell'intelletto il proposito più ardimentoso appare come preferibile, tuttavia l'analisi, la meditazione, la critica non hanno mai contribuito a rendere più risoluta un'azione, e quale azione ! Fu allora che un miracolo avvenne e volontà di popolo lo produsse. So bene che tutti i partiti, ed anche i più democratici, riconoscono il popolo solo nelle manifestazioni che coi loro fini concordano; mentre, negli altri casi, valgono le altre espressioni di "folle incoscienti" e di "minoranze audaci" che si impongono per sopraffazione e per violenza. Ma chi ricorda le giornate di maggio, se non vorrà venir meno alla più elementare realtà storica, dovrà bene riconoscere che mai sentimento di popolo esplose con maggiore impeto e mai voce di popolo parlò con maggiore autorità, capace di infrangere tutti gli ostacoli e di vincere tutte le esitazioni.

Parlò questa voce e fu squilla che, coi vecchi ardimenti, suscitò i vecchi inni della Patria e parve che veramente dalle tombe balzassero i morti ad alimentare di più viva fiamma le speranze, i sogni, le idealità sino allora represse o sopite. Fu davvero la voce d'Italia; e fu voce che cercava il rischio, aspettava il cimento, invocava il pericolo. Ora codesto avvenimento tanto più deve apparire prodigioso e - direi quasi - avvolto in un nembo di casualità mistica, in quanto la preparazione cui per lunghi decenni lo spirito pubblico italiano era stato assuefatto, era la meno bellicosa che possa concepirsi. Anzitutto, le seducenti teorie sulla solidarietà umana e la fede che con la scorta dei principi di una suprema giustizia immanente si potessero senza più violenza comporre le grandi competizioni mondiali, avevano ottenuto un più facile e decisivo trionfo nell'anima latina, per una natura più aperta al fascino di generose utopie. Di poi, la fortuna economica che in questi ultimi anni aveva arriso all'Italia determinando, se non la ricchezza in senso assoluto, l'arricchimento in senso relativo, aveva sviluppato le qualità, ma anche i difetti dei popoli mercantili e delle società industriali. 

Con compiacimento, se non con gloria, si citava il rapido incremento degli indici della ricchezza economica, onde poi si alimentavano ed acuivano, intorno alla ripartizione dei profitti, gare e contese tra città e città, tra regioni e regioni, tra classi e classi. E in tutti i modi si veniva sempre più rallentando ed estenuando la virtù coesiva dell'attaccamento al gruppo statale; che anzi, ridotto il dovere civico ad una specie di controprestazione, la quale presuppone una prestazione e ad essa si commisura, i cittadini italiani, e persino gli stessi servitori dello Stato, si erano tramutati in altrettanti creditori molesti, petulanti, inesorabili; ogni giorno, era una cambiale che scadeva e che era presentata con violenza non separata da villania; individui e collettività urgevano e premevano continuamente, chiedendo con minaccia, accettando con dispregio. 

E a questa mentalità economica, che esaltava le efficienze dell'egoismo individuale o municipale o di classe, e deprimeva quelle del generoso sacrificio verso la suprema idea collettiva di Patria, si era venuta conformando una mentalità politica, che preferiva girare l'ostacolo anzi che affrontarlo, comporre le questioni anzi che risolverle, preoccuparsi della tranquillità presente anzi che delle ragioni dell'avvenire; che il maggior vanto di un popolo ripose nel pareggio del bilancio, così come, fra le pubbliche funzioni, massimamente ebbe in onore la contabilità dello Stato e la perfezione dei controlli finanziari, - una mentalità, insomma, che aveva potuta corrisponder bene a quelle date situazioni, ma che, certamente era assai più atta ad alimentare le virtù della prudenza che quelle dell'eroismo, ad assicurare la comodità piuttosto che la gloria. Se, dunque, questo popolo, per tante cause pacifico, scelse liberamente e volontariamente la via del sacrificio, quando per ben dieci mesi era durata la suggestione snervante delle stragi e degli orrori della guerra, e culminava l'immane conflitto in un momento non certo favorevole alla causa di quelli che diventavano i nostri alleati, la ragione di questo prodigio deve ritrovarsi in ciò: che il nostro popolo intese, anzi dirò meglio, intuì, per virtù d'istinto, che l'assentarsi da quella guerra avrebbe segnato il proprio suicidio e nell'astensione presentì una minaccia più oscura e un disastro più irrimediabile di tutte le minacce che la guerra conteneva, di tutti i disastri che avrebbe potuto determinare. 
Così è nelle ore tragiche della vita dei popoli, quando s'impone il dilemma inesorabile dell'"essere o non essere", è questa misteriosa e meravigliosa virtù che, prorompendo dalle inesplorate profondità dell'anima collettiva, previene le ponderate decisioni della coscienza e sospinge sulla via della salvazione. L'istinto della conservazione collettiva arriva così a vincere il più possente fra gli istinti individuali, che è quello della propria conservazione, ed il popolo italiano volle che migliaia dei suoi figli morissero perché vivesse l'Italia. Per tal modo, della giustizia e della necessità della guerra l'istinto popolare procedendo per sintesi, come suole, aveva intuito le cause profonde ed ineluttabili; l'intelligenza con il suo più lento processo, per analisi, ne dà la dimostrazione.

E sta qui il momento logico e storico del nostro intervento. Nell'ultimo quarantennio si era venuto formando in Europa un sistema regolatore della convivenza pacifica tra le Nazioni, per mezzo di un equilibrio di forze, capaci di determinare quel limite reciproco, che è il presupposto essenziale di ogni diritto interno o internazionale. Tanto più felicemente quest'equilibrio aveva assicurata la pace e garantito ad ogni popolo un'armonica sfera di sviluppo, in quanto che, nelle questioni particolari, non sempre né completamente potevano coincidere le aspirazioni ed i bisogni delle singole Potenze alleate; onde, in taluni casi, interessi autonomi legittimavano autonomi atteggiamenti; e in taluni altri casi, un disinteresse relativo determinava un più equo apprezzamento ed esercitava un'influenza moderatrice. Così, nel primo senso, le sue alleanze non avevano più impedito all'Italia di concludere sulle questioni mediterranee utili e locali accordi con l'Inghilterra e con la Francia e di trovar nella Russia, a proposito dell'impresa libica, un consenso ben più spontaneo e una simpatia ben più fervida che non presso gli alleati. 

Dalla stessa Germania, a non parlare del famoso trattato di controgaranzia stipulato con la Russia, si possono citare non pochi esempi di un'azione decisamente favorevole a quella della Russia o della Francia e non sempre concorde con quella dell'Italia e della stessa Austria. Nel secondo senso, un intervento moderatore di alleati verso alleati scongiurò la grave minaccia che la questione del Marocco aveva suscitato contro la pace europea; e soprattutto, dopo la guerra balcanica, quando inevitabile pareva il conflitto tra la Russia e l'Austria, valse ad impedire l'azione disinteressata o meno interessata delle altre Potenze. E chi può osare di asserire che l'evento il quale diede occasione, o meglio, pretesto alla guerra attuale, racchiudesse in sé elementi più inconciliabili e più irriducibili? Con il partecipare a questo sistema di equilibrio europeo l'Italia giovava al suo interesse, essenzialmente pacifico, e nel tempo stesso serviva ad un grande ideale di civiltà; essa collaborava attivamente ad una corrispondente concessione del diritto e della vita intersociale dei popoli ed affermava la sua dignità e il suo grado di grande potenza. Quale valore essa attribuisse a tali altissime finalità è dimostrato dalla grandezza del sacrificio che si era dovuto imporre. Essa aveva affrontato l'incredibile paradosso di esser l'alleata della sua naturale nemica; giacché - secondo una frase rimasta celebre e che gli avvenimenti hanno dimostrato sino a qual punto fosse vera - fra l'Italia e l'Austria si poneva il dilemma inesorabile: "o alleanza o guerra"

Ma alleanza doveva significare, se non dimenticanza delle ragioni del dissidio, almeno leale e sincero sforzo di temperarlo e in ogni caso di non inasprirlo. E la storia di questi ultimi decenni dimostra con quanta abnegazione l'Italia abbia a questo dovere adempiuto e con quanta pertinace mala volontà l'Austria l'abbia violato. Si fa qui palese un altro grossolano errore di sentimentalità collettiva commesso dai nostri nemici quando essi, ricordando che altre terre italiane fanno parte di altri Stati, troverebbero coerente che noi, o facessimo guerra a tutto il mondo, o ci associassimo ad una generale denuncia verso tutto il mondo. Essi non comprendono che l'anima italiana, appunto perché scevra di qualsiasi satanica ambizione imperialista, non si è già ribellata di dolore e di sdegno perché genti di nostra stirpe fossero comprese in altri gruppi politici, ma con eguaglianza di garanzie e con rispetto della loro dignità etnica, bensì perché dall'Austria si volesse comprimere ed anzi annullare l'incoercibile carattere di italianità di quelle terre e di quegli uomini, e con opera ora brutale ora insidiosa, ma sempre metodica e tenace: che non si desistesse dal tormentare quei fratelli nostri con ogni persecuzione e con ogni umiliazione per punirli di ciò: che essi erano e volevano continuare ad esser Italiani.

Eppure tutto questo noi soffrimmo; e soffrimmo che inascoltati rimanessero i gridi di dolore di Trento e di Trieste, indomite e fedeli; appellammo vero patriottismo il biasimo di ogni voce patriottica, la repressione di ogni generoso tentativo di protesta; restammo muti e inerti costringendo fremiti e impulsi pur così umanamente spontanei, con la più dura e intollerabile disciplina. Così, a un ideale di pace e di civiltà, facemmo olocausto dei nostri affetti e dei nostri odii, delle nostre lacrime e delle nostre ire, delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti, insomma di ogni cosa più fieramente esecrata e di ogni cosa più fieramente diletta.

Ma venne il giorno in cui bruscamente, brutalmente, tutto l'edificio crollò, e l'Italia si trovò dinanzi al tragico problema di determinare quale decisione dovesse prendere in una guerra che, per il modo stesso onde venne ad impegnarsi, involgeva tutte le questioni, toccava tutti gli interessi, supponeva e imponeva l'integrale revisione delle cause e delle condizioni per la libera coesistenza dei popoli civili .... Nelle immani catastrofi, come quella cui assistiamo, l'efficienza della volontà degli individui, per possenti che siano, non è mai decisiva; l'uomo è strumento di una fatalità storica, che quella crisi determina. Deve allora la guerra considerarsi ora come un urto di razze perché ne trionfi una, superiore e predestinata, ora come un urto di idee perché trionfi quella in cui si affermi un progresso della civiltà: le guerre di Roma o le guerre della rivoluzione francese.

Sotto il primo aspetto, se in quella attuale fosse vero che un popolo abbia creduto di adempiere ad una missione ad esso spettante per mistico potere e di attuarla con la forza inesorabile delle armi, segnando con la propria vittoria una novella fase nella storia del progresso umano, non poteva tale pretesa non apparire a noi come un orgoglio folle, come un'ebrietà smisurata; a noi, rappresentanti di una civiltà che ha materializzato di vitale nutrimento tutta la vita sociale delle Nazioni più progredite e che pulsa ognora di forza e di giovinezza immortale e non potevamo sentire tutta la nostra solidarietà morale ed etnica con gli altri popoli che sono sorti a difesa del proprio valore storico e della propria ragione d'essere nel mondo. Che se, invece, si vogliono considerare le cause della guerra sotto l'aspetto del trionfo di una nuova idea di civiltà e di progresso, chi può dire tali quelle che abbiamo sentito enunciare, non soltanto da singoli filosofi o pensatori, ma anche da uomini di Stato che parlavano in nome della loro nazione: esser condannabile il principio stesso dell'equilibrio europeo; i campi dell'attività di un popolo non doversi misurare che esclusivamente con il criterio dei propri bisogni in funzione con la propria forza; solo fondamento e solo presidio del diritto essere la buona tempra dell'acciaio e la pressione irresistibile del maglio; lecito, anzi doveroso, il sacrificio delle nazionalità minori in quanto di ostacolo alla esuberante, illimitata espansione di un grande popolo? E quando, per fare lo sforzo, probabilmente in buona fede, di dare alla loro guerra un carattere difensivo, si afferma di aver voluto prevenire un attacco che si preparava, e di aver aggredito per non essere aggrediti, si esprime un concetto sostanzialmente affine a quella tragica alternativa: "bisogna sottomettere gli altri per non esser sottomessi", onde un altro sognatore di egemonie mondiali, Napoleone, cercava di giustificare le sue guerre di conquista.

Se dunque, una ragione ideale ci orientava, una più energica ragion politica ci sospingeva, fatalmente, nel senso medesimo. Imposta la guerra al di fuori della nostra volontà, anzi contro di essa, si era creata un'impossibilità morale che noi, a fianco o meglio al seguito dei nostri antichi alleati, combattessimo contro i nostri sentimenti, contro le nostre aspirazioni, contro i nostri interessi .... Ebbene il non aver la possibilità di combattere insieme costituiva di per sé stesso la spinta più decisiva a combatter contro, a meno che noi non ci fossimo dichiarati incompetenti verso tutto ciò che di più essenziale è nella vita e nel diritto dei popoli, indifferenti verso qualsiasi soluzione di un conflitto, in cui, insieme agli interessi di tutto il mondo, erano in giuoco tutti gli interessi italiani. E, se inconcepibile era una tale indifferenza, quale altra causa si sarebbe potuta attribuire alla nostra astensione se non il timore dell'alea e la preoccupazione del pericolo? Ognuno dei gruppi del terribile contrasto avrebbe considerato chi non era stato con loro come contro di loro: sicché, quale che fosse stato il vincitore, l'Italia, non combattendo, si dichiarava vinta in anticipo. E vinta con ignominia, essendo per un popolo assai peggio dell'esser battuto l'esser considerato incapace di battersi.

Guai agli assenti, ai contumaci, agl'inutili; guai agli avari di danaro e agli aridi di cuore, a coloro che si chiudono nell'angusta cerchia del loro egoismo, a coloro che possono continuare a godere la loro frivola vita, dimentichi di coloro che danno la loro nobile vita per la difesa comune! Tutti codesti, se non allo stesso girone, appartengono certo alla stessa cerchia dei traditori della Patria: di coloro, cioè, che speculano sulla sciagura collettiva, dagli incettatori ingordi ai fornitori rapaci.

Difficoltà di altr'ordine, ma se è possibile, ancor più delicate creava la situazione del SOMMO PONTEFICE, la cui speciale sovranità era stata riconosciuta da una legge fondamentale dello Stato con tutta lealtà applicata. In essa l'evento della guerra non era regolato espressamente; né l'omissione era dipesa da imprevidenza, bensì, come attestano gli atti parlamentari del tempo, dalla esitazione e dalla perplessità, che generava la visione delle gravi complicazioni, che quell'evento avrebbe determinato in una materia già per sé stessa così ardua. Ebbene, noi queste difficoltà, che avevano resi perplessi uomini pur così grandi, le abbiamo affrontate e superate col semplice presidio di una scrupolosa osservanza della legge, non soltanto mantenendo inalterate tutte le guarentigie ch'essa attribuiva, ma qualche lacuna, che l'esperienza rivelava, colmando con uno spirito di larga interpretazione del principio fondamentale della legge stessa: di riconoscere cioè e di garantire quella speciale forma di sovranità spirituale. Per tal modo, mentre in altre, non più di questa, gigantesche lotte di interessi e di popoli, la qualità sacra di Capo della Chiesa non aveva impedito che il Sovrano temporale soffrisse persecuzioni e violenze, prigionia od esilio, da Gregorio VII a Bonifazio VIII a Pio VII, nella presente spaventosa procella che non ha risparmiato i principi più indiscussi, né gli imperi più possenti, e che ha dimostrato quel che valgono gli impegni internazionali più solenni, il Sommo Pontefice governa la Chiesa ed esercita il suo altissimo ministero con una pienezza di diritti, con una libertà, una sicurezza, un prestigio, quali si convengono alla veramente sovrana autorità, che nel campo spirituale gli compete.

Con le eroiche virtù del suo esercito, rifulgenti sui campi di battaglia, e con la fortezza austera onde il suo popolo ha sopportato i sacrifici, le rovine, i dolori della terribile guerra, l'Italia ha già riportato una vittoria, di cui immenso è il valere morale. Anche nella breve cerchia di nostra vita individuale, il facile bene è meno desiderabile, e il più stentato più caro: la meta che più costa di sofferenza più dona di gioia a chi la raggiunge. Non diversamente è nella vita dei popoli. L'indipendenza, massimo dei beni, non è appresa davvero e non è conservata con la religione del suo valore, se non sia il frutto di un grande sacrificio collettivo, cui abbiano partecipato ogni individuo e ogni generazione Nessun popolo potrà possedere una salda compagine nazionale, se non la temprò a lunghi e duri cimenti se non la conservò a prezzo di una difesa, vigile sempre e qualche volta disperata. Lo Stato più fortemente unitario e nel quale più vibra lo spirito patriottico, la Francia, affermò la sua indipendenza in una guerra di cento anni; e la Germania -anche a prescindere dalle guerre napoleoniche - dalla duplice guerra del 1866 e del 1870 balzò fuori, sanguinosamente ma vittoriosamente, come una poderosa organizzazione statale. 

E se la Sicilia nostra avverte così intensa la forza del sacrificio collettivo e serba così tenace l'impronta di sentimento e di pensiero unitario, egli è perché la sua storia fu profondamente segnata da gesta, cui contribuì col suo valore, coi suoi beni, col suo sangue, il popolo tutto, ond'essa con eroico coraggio e con nuovo spirito nazionale sostenne da sola, contro mezza Europa, tre battaglie campali e quattro navali, e tre invasioni sofferse e tre ne respinse, e più volte, di poi, nel corso dei secoli, sollevò come un braccio solo il braccio di tutti i suoi figli per la difesa della sua individualità storica e della sua essenza ideale.

All'Italia, superato il periodo eroico della costituzione come unità politica, era sinora mancato il cimento in cui affermarsi come organica unità di popolo. Che anzi erano stato soprattutto, vicende di tempi e complicazioni internazionali, fortuna di eventi e accortezza di governanti che alla Patria nostra avevano dato alcune delle regioni che ne sono l'orgoglio, con sacrifici neppure paragonabili a quelli che ci costano ora una vetta alpina o una quota anonima di altipiano. Roma stessa, aspirazione, passione, sogno di millenni, meta radiosa e sanguinosa di popoli, a volta a volta ondeggianti e cozzanti sotto le sua mura immortali, Roma noi ottenemmo con una pena assai minore di quella che non ci costi oggi la conquista di pochi metri quadrati, sulla desolata nudità del Carso. Si poteva temere che per tale modo si fosse generata l'indolente e imbelle fiducia in una provvida stella, per cui bastasse l'essere italiani perché i destini dovessero piegarsi a darci per benevolenza ciò che altri ha acquistato con dure vigilie e con fatiche asprissime e con sforzi disperati. Invece, quando il popolo italiano ha sentito che lo si chiamava per la prima volta come unità di Nazione, non in una formula politica o in un ben calcolato carteggio diplomatico, bensì sul campo di battaglia sotto il fuoco e contro il fuoco nemico, esso ha con fede e letizia accolto il suo battesimo di sangue ed ha mirato intrepido gli orrori della guerra. Così esso ha detto al mondo che l'Italia contemporanea non gode solo degli incanti della natura e dell'arte, ma conosce pure l'aspra e sana virtù del sacrificio e della sofferenza: che non è solo genitrice di pensatori e di poeti, ma di tutto un popolo illuminato dall'idea e temprato all'azione che la nostra fede ha muscoli, ha nervi, ha sangue, onde non abbiamo soltanto cuori per sognare la grandezza della Patria, ma anche e soprattutto salde mani per ghermire le alate vittorie.

E di questa già conseguita vittoria, il riconoscimento ci viene dalla fonte meno sospetta: dal nostro stesso nemico. Noi lo avevamo cercato e combattuto a viso aperto sui valichi e sulle sponde dello sciagurato confine, nel leale cimento della guerra, dove, pur nella reciproca strage, il soldato rispetta il soldato che gli sta di fronte. Ma il nostro nemico più vede la vittoria onorevole sfuggirgli e più la sua rabbia cresce, più si accanisce la sua perfidia, più l'odio suo spietatamente si disfrena contro gl'inermi, sperando di asservirci con l'intimidazione collettiva. E l'abbiamo visto procedere man mano all'uso insidioso delle nostre insegne, alle finte rese dissimulanti l'aggressione, al disumano infierire verso la Sanità militare, alla stupida distruzione di capolavori d'arte e di bellezza, al bombardamento di città indifese ed aperte. Ma noi resistevamo e vincevamo egualmente; ed ecco gli assassinii in massa di Verona e di Brescia, ed ecco i criminosi naufragi dell'Ancona, e del Firenze. Così l'Italia può dire di aver sofferto il più esecrabile dei delitti ond' è stata disonorata questa guerra: di modo che, se in altre loro consimili atrocità si poteva mendicare al cospetto del mondo inorridito una ragione sia pur fallace o inadeguata, come il trasporto di cose atte alla guerra o il preavviso relativo a certe zone determinate, quale mai pretesto potrà l'uomo anche più sfrontato far valere per quelle innocenti navi che portavano fuori d'Italia la povera inerme umanità che segue, lungi dalla guerra la sua vicenda di fatiche e di dolori?

Ebbene, alla inaudita infamia novissima, mentre il Governo adempie al suo dovere provvedendo alle difese, noi rispondiamo in questa Palermo, che nei duemila anni della sua storia non ha mai conosciuto che cosa sia la paura, riaffermando l'incrollabile proposito che l'assassino non consegua il premio del suo delitto. Esso voleva intimidirci; e noi invece perdureremo nella guerra con sentimenti non mai sinora provati. Noi combattevamo senza odio e non per vendetta come chi sa di perseguire un suo diritto: ma finché gli orecchi nostri saranno disperatamente straziati dalle invocazioni e dagli urli delle nostre donne affoganti, ma finché dinanzi ai nostri occhi appariranno volti di madri improvvisamente impazzite dal terrore ed esangui, piccole mani di bimbi nostri, levate verso Dio, e poi tutto un mostruoso viluppo di persone e di cose che scompare nell'impassibile seno del mare, oh fino ad allora combatteremo con odio e per vendetta, combatteremo fino all'ultimo centesimo delle nostre sostanze e sino all'ultima goccia del nostro sangue, non solo per vincere un nemico, ma per domare una belva. E vinceremo. E il nostro odio sarà seme di amore fra i popoli che tendono a più civili forme di vita: e la nostra vendetta resterà al cospetto della storia quale atto de ammonimento di solenne giustizia.

DAL FRONTE

La giornata di ieri segnò importanti successi per le nostre armi lungo la fronte dell' Isonzo e specialmente sulle alture a nord-ovest di Gorizia. L' azione cominciò nella notte coll' aprire arditamente numerose breccie nei profondi reticolati antistanti ai fortissimi trinceramenti nemici. All' alba le nostre fanterie, secondate con accordo perfetto dalle artiglierie, attaccarono il villaggio di Oslavia e le alture a nord-est e a sud-ovest del paese a cavallo della strada da San Floriano a Gorizia. L' avversario oppose tenacissima resistenza, ma travolto infine dall' impeto dei nostri assalti, dovette cercare scampo nella fuga, abbandonando le trincee piene di cadaveri e 459 prigionieri, tra i quali molti ufficiali. Successivi violenti contrattacchi nemici, taluni dei quali preceduti da alte grida di «Savoia» a fine di trarre in inganno i nostri, furono tutti ributtati con incrollabile fermezza.
Anche sulle alture del Podgora e del Calvario, a mezzodì di Oslavia, a prezzo di sforzi ammirevoli compiuti sotto l' infuriare del fuoco delle artiglierie nemiche, vennero sfondati altri due ordini di trincee e fu pressoché raggiunta la linea di vetta.

Sul Carso continuò l' avanzata lungo le falde settentrionali del Monte San Michele e a sud ovest di San Martino, cacciando l' avversario di trincea in trincea e prendendogli 137 prigionieri.
Velivoli nemici lanciarono ieri qualche bomba su Schio, ferendo leggermente 8 soldati. Una nostra squadriglia, in condizioni atmosferiche avverse per vento impetuoso, rinnovò l' incursione sul campo d' aviazione d'Aisovizza, sul quale lanciò più di cento granate-mina. I velivoli rientra rono incolumi.

Firmato: CADORNA

Come in una macchina del tempo, ogni giorno una nuova pagina del diario.
Le testimonianze, le immagini, i filmati negli archivi e nei giornali dell'epoca.

Sono nato a Roma nel dicembre del 1984, mi sono diplomato al liceo scientifico J.F. Kennedy e ho frequentato la facoltà di Scienze della Comunicazione all’università la Sapienza, ma non mi sono laureato.

I miei interessi? Un po’ di tutto, come molti trentaduenni. Lo sport, la politica, la Storia del ‘900. Niente di eccezionale.


Dal dicembre 2003 al marzo 2005, ho scritto per un giornale locale (Il Corriere Laziale), quindi ho fatto uno stage con una piccola televisione satellitare (Nessuno TV).
Nel 2011 la Graphofeel edizioni ha pubblicato il mio libro “Mens insana in corpore insano”, il racconto di una vacanza on the road da Roma a Capo nord.
Dall’agosto 2013 al gennaio 2014 ho ricominciato a scrivere di calcio quotidianamente, con articoli e pronostici sportivi sul sito http://www.scommessepro.com/
Da giugno 2014 racconto la Grande Guerra, giorno per giorno.

Davide Sartori